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19.12.17

Wonder Wheel (id., 2017)
di Woody Allen

Al secondo film realizzato con Vittorio Storaro si può dire di essere di fronte ad una nuova fase del cinema di Woody Allen. Stavolta non è il tono del film a caratterizzarla (come quando iniziò a fare film seri) o la committenza (come quando diventò un giramondo che faceva film nelle città che lo chiamavano a farlo) ma la collaborazione con il direttore della fotografia. Come Cafè Society anche Wonder Wheel è un film di Allen e Storaro, insieme. Benché la sceneggiatura sia di Woody Allen, come sempre, la messa in scena è talmente influenzata dalle luci e dai colori, quel che accade ai personaggi e quel che capiamo di loro è così determinato dai movimenti di macchina e dalla temperatura cromatica, che l’apporto fotografico diventa determinante per il senso di ogni momento.

Justin Timberlake guarda in camera dall’alto della sua postazione da bagnino anni ‘40 e introduce il film parlando con gli spettatori, siamo nel campo del teatrale, della tragedia greca messa in abiti moderni. Lui avrà una storia segreta con una donna matura e sposata, la quale riceve la visita della figlia di primo letto del marito e proprio questa, più giovane, le ruberà (non sapendolo) il fidanzato. Che poi è sempre Justin Timberlake.
La prima donna, quella più matura, è Kate Winslet, la seconda è Juno Temple. La prima è illuminata con i toni caldi, la seconda con quelli freddi, e quando una situazione passa dall’essere centrata sulla prima, ad essere centrata sulla seconda, il film riesce a cambiare illuminazione nella medesima inquadratura.

È solo un esempio che dimostra come questi film con Storaro siano di una complessità visiva inedita per un regista che gira in fretta come Woody Allen. Ci sono set elaborati, moltissime location e inquadrature che richiedono molto tempo per essere preparate. Niente di tutto ciò cui ci aveva abituato.
Tutto per raccontare un’altra storia in cui il caso è determinante e per farlo a partire da un luogo, Coney Island, il mare di New York. C’è una spiaggia e un parco divertimento vicino al quale vive la famiglia protagonista (ci era cresciuto anche il personaggio principale di Radio Days). Proprio la prossimità alla grande ruota panoramica è quel che illumina le stanze della casa (la location in cui accadono più cose) di colori forti e decisi. Cioè il luogo non solo è il motore di tutto (lui è un bagnino, la spiaggia fa da cupido), ma è anche ciò dà un tono visivo alla storia e ne determina il senso.

Nella grande epica dei luoghi che Allen sta raccontando da Match Point in poi, questa tragedia tutta interna ai confini di Coney Island (ci sono anche due gangster, interpretati da due attori di I Soprano, che per esistere però dovranno venire a Coney Island) è uno dei suoi film visivamente più soddisfacenti, un piccolo trionfo di quotidiane amarezze nelle quali Kate Winslet è la ordinary woman perfetta. Aiutata da un maestoso Jim Belushi (che spazza via in due scene l’immagine comica che abbiamo di lui), fa quel che fece Mia Farrow in Alice o Gena Rowlands in Un’Altra Donna, crea un modello di femminilità alternativo a quelli del resto del cinema, matura e tormentata, sola e sommessamente disperata come un’eroina tragica degli anni ‘50. È un esercizio complicatissimo grazie al quale sorregge benissimo il film, si mette a favore di luce ocra, si lascia bagnare dai tramonti finti di Storaro e pare aver capito che per esaltare questa festa per gli occhi e tragedia per il cuore deve duettare più con i colori che con gli attori. E lo fa!

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