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6.4.15

Wild (id., 2015)
di Jean-Marc Vallée

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Non ci sono dubbi sul fatto che Wild si presenti come "Into the wild per signore" (e il titolo in questo dà una mano), in realtà il film di Jean Marc Vallée, seppur tratto anch'esso da una storia vera e seppur centrato anch'esso su una persona che rimanendo all'interno del Nord America fugge dalla civiltà per arrivare in un luogo selvaggio, ha uno spirito sociale e umanista che lo differenzia nettamente dal film di Sean Penn. È evidente che ci troviamo nel medesimo genere, quello del contatto tra esseri umani e natura, i grandi spazi e la riscoperta di un immaginario naturalistico perduto, tuttavia Into the wild era un film che metteva in questione l'approccio naturalista, mai davvero dalla parte del protagonista, ammirato e spaventato dai luoghi che Alexander Supertramp attraversava, mentre Wild è animato da una patina più banalmente sognatrice.

La vera storia di Cheryl Strayed e il suo viaggio a piedi lungo la Pacific Crest Trail (un percorso noto e molto battuto dagli amanti del viaggio a piedi in mezzo alla natura) filtrata dalla penna di Nick Hornby e dall'occhio non certo duro ma anzi galante del regista di Dallas Buyers Club (un film su drogati, malati di AIDS e razzisti senza nemmeno un momento realmente duro) diventa un'avventura poco avventurosa e molto contemplativa, in cui quel che accade non dice molto sul mondo in cui vive la protagonista quanto sulla protagonista stessa.
È Cheryl Strayed l'interesse del film, i luoghi che attraversa sono il pretesto. Il film le gira intorno, indaga le sue motivazioni nei flashback, si chiede cosa provi e la mette a contatto con difficoltà, emozioni e incontri particolari per guardare come questa donna li affronti e ne esca.

Per questo motivo sembra un film riuscito a metà. Hornby e Vallée vogliono guardare una donna sforzarsi di cambiare davvero per sopravvivere nelle terre selvagge (la metafora è lì ad un passo, sembra quasi di vederla e poterla toccare) e non si chiede mai se la sua decisione sia opportuna, non si chiede se quella natura tanto esaltata, quell'approccio naturalista così invidiato dalla fotografia di Yves Belanger sia poi davvero auspicabile. Con ogni inquadratura Wild dichiara amore per la natura ma anche distanza, come chi sogna paesaggi esotici guardando l'immagine dello sfondo del proprio computer da un ufficio, senza sapere molto di quel che desidera.
Tutto concentrato a mettere in scena il sogno metropolitano dell'abbandono delle spoglie civili per una riscoperta della "vita vera", Wild dimentica che forse quel sogno cela delle parti da incubo e si limita a creare delle difficoltà contingenti (un infortunio, un oggetto che manca, l'incontro con individui poco raccomandabili) come se lo scenario fosse neutro.

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