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26.8.16

Il Diritto di Uccidere (Eye in The Sky, 2015)
di Gavin Hood

Gavin Hood prende la decisione giusta per mettere in film lo script di Guy Hibbert in cui dal capitano al generale, fino al primo ministro passando per i diversi gradi e le diverse sfere del potere legale e politico di Gran Bretagna e Stati Uniti, tutti sono coinvolti nella decisione di sparare un singolo missile. L’obiettivo sono alcuni dei nomi che stanno più in alto nella lista dei ricercati della NATO, i problemi invece sono vari. Prima sarà la cittadinanza statunitense e britannica di alcuni degli obiettivi a porre delle questioni di opportunità, poi invece la presenza nel luogo del futuro impatto del missile di una bambina ingenuamente posizionatasi là dove non deve stare. Nessuno vuole la responsabilità di aver dato quell’ordine, tutti però vogliono che sia fatto.

È difficilissimo scrivere e poi mettere in scena un film come Il Diritto di Uccidere, un dramma da camera tutto dialoghi e interazioni teatrali, giocato in almeno 4 location principali diverse che le tecnologie digitali accorciano rendendole un luogo unico. È difficilissimo perché in realtà, oltre alla scrittura estremamente delicata (visto il tema) c’è anche un lavoro sul meno teatrale degli espedienti di linguaggio, il montaggio per lavorare sul tempo. Perchè se lo spazio viene compresso, dando l’impressione che persone in luoghi diversi siano tutte nello stesso posto, il tempo invece è dilatato all’inverosimile e la decisione se sparare o no un missile contro un obiettivo sensibile tramite drone, viene presentata come l’opposto di “premere un grilletto”. Un ginepraio di decisioni, scaricamento di barili, verifiche, implicazioni legali e direttive dall’alto sembrano frapporsi tra un colonnello e l’esecuzione del suo ordine.

Ci sono moltissimi esempi di cinema militare che negli ultimi anni hanno affrontato i nuovi tipi di guerriglia ma Il Diritto di Uccidere ha delle qualità che lo avvicinano al cinema di guerra classico, in primis il fatto di poter essere letto in maniere diverse. È innanzitutto l’incredibile frustrazione portata dalla burocrazia ad un colonnello (Helen Mirren) pragmatico e cinico che desidera fare fuori l’obiettivo che insegue da anni e che finalmente ha nel suo mirino, il termine di una caccia che non vuole arrivare, ma è anche l’odissea di una bambina vittima di questioni più grandi di lei, o l’assurdità della vita in un luogo in cui da un momento all’altro si può essere colpiti dal cielo o ancora una perfetta rappresentazione di come le nuove tecnologie (non solo i droni e le videocamere ma anche internet e la possibilità che le immagini di un uccisione finiscano in rete) complichino lo scenario politico, mettendo i politici di fronte alla piena responsabilità pubblica delle loro azioni.

Gavin Hood non nasconde di parteggiare per la tenerezza e i bambini, divertendosi a screziare i militari, eppure Il Diritto di Uccidere è così ben riuscito da posizionarsi in un territorio intermedio anche al di là della volontà di chi l’ha realizzato. Questo film che ci arriva con molto ritardo e in una stagione non favorevole agli incassi è capace di dare conto con grande tale complessità di ciò che si cela dietro un grilletto premuto, senza fingere che il problema sia solo di chi lo preme (come faceva Good Kill) ma spiegando bene tutte le forze in campo e non dimenticandosi di porre una domanda finale, cioè di lasciare allo spettatore l’ultima valutazione sull’operato di quei personaggi che “barano”.

2 commenti:

Unknown ha detto...

Ho apprezzato questo film, sicuramente Hood si risolleva dopo lo sciapo Ender's game.
Un dettaglio sulla questione temporale, che giustamente annoti come centrale: che ne pensi della reiterazione del conteggio (i 50 secondi di traiettoria del missile), non è una forzatura nella tensione dello spettatore? Come dire: è un espediente che mi ha catturato la prima volta, perchè ripeterlo tale e quale poco dopo?


gparker ha detto...

Un po' è vero anche a me la seconda volta aveva un po' rotto e mi sembrava un'inutile ripetizione...


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