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8.4.17

La Parrucchiera (2017)
di Stefano Incerti

Il punto di riferimento di La Parrucchiera è evidente da subito, fin dall’inizio, dai corpi scelti, dai volti, dai colori dei vestiti, dal titolo e dalla maniera in cui sono messi in scena i saloni di bellezza in cui si svolge tutto (ma anche solo dalla scelta di un simile gineceo come piazza della propria storia). L’impressione però è che invece che rifarsi davvero al cinema di donne di Almodovar, alla maniera in cui il regista spagnolo abbini la vivacità dei colori, all’espressionismo della recitazione fino ad una scrittura che adora trastullarsi con trame, intrecci e personaggi da romanzetto, il film di Stefano Incerti sia più la copia di un film di Nadine Labaki girato per imitare Almodovar ma filtrato attraverso Pappi Corsicato. Una serie di versioni derivative che ad ogni passaggio perdono qualcosa.

Perché del modello originale La Parruchiera innanzitutto non ha l’equilibrio. La storia di una parrucchiera di Napoli che, in rotta con i proprietari del salone in cui lavora per le avances sconsiderate del di lei marito, decide di aprirsi il proprio salone concorrente con mille difficoltà economiche ma una determinazione non comune e l’aiuto delle altre donne intorno a lei, è un crogiolo di enfasi. C’è enfasi per tutti e su tutto, che è perfettamente in linea con le intenzioni e lo stile adottato ma se non è mai bilanciata da un equilibrio narrativo rimane solo una sottolineatura ad ogni scena. Non è difficile esagerare, difficile semmai è riuscirci senza strafare, mantenendo il bilanciamento necessario ad un film per reggersi. La Parrucchiera invece è un film pieno di effetti senza cause, pieno di intensità che spunta dal niente senza che sia stata costruita e quindi motivata.

Nonostante faccia un lavoro indubbiamente buono e interessante con il casting, mettendo in fila una serie di corpi in sé interessanti e dal rapporto stranamente magnetico con l’obiettivo, questo racconto di marginalità napoletana se messo accanto all’altro grande racconto di bassifondi napoletani dei nostri anni, cioè Gomorra (e il paragone lo vuole il film in primis che lo cita con un po’ di spregio in un momento di generico attacco alla rappresentazione di Napoli sui media), sembra un fantasy. Il mondo fantastico e ideale di La Parrucchiera è fatto di strozzini zoppi con la benda sull’occhio, sadici e vendicativi frustrati, botteghe colorate e uomini pittori. Nonostante finga di abbracciarlo con i suoi sfondi, La Parrucchiera rifiuta in toto il realismo (quello che invece Gomorra abbraccia e poi rende letterario) per una dimensione sognante.

Peccato che, anche trascurando la provinciale voglia di esagerare senza saper gestire gli eccessi, il film sia troppo spesso al di sotto di un livello accettabile. Affiancare attori di livello ad altri alle primissime armi non gli riesce sempre bene e a tratti la recitazione è eccessivamente amatoriale, ma anche il montaggio sorprende con alcuni stacchi così brutali che tirano lo spettatore fuori dal film interrompendo la fluidità del racconto come sabbia in un ingranaggio. Se a questo si aggiunge una trama che parte decisamente troppo tardi e anche quando parte non è propriamente il massimo, nonchè la grande riconciliazione femminile finale che ha il sapore di una chiusa strappapplausi da teatrino, il cerchio è completo.

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