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7.9.16

Une Vie (id., 2016)
di Stéphan Brizé

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
CONCORSO
Non è nemmeno il fatto di dover adattare al cinema un autore classico (Guy de Maupassant), non è il farlo con un film in costume, quindi rispettoso di ambientazioni, scenari, usi e costumi. Non è il tentare la ricostruzione (al cinema molto difficile vista la durata dei film) di una vita in pochi quadri, è proprio l’idea alla base di Une Vie, quella di passare per i momenti meno clamorosi e cogliere lì ciò che conta, a far deragliare questo film che sembra terminare nel luogo in cui meno di tutti desiderava arrivare, nel fastidio epidermico per la sua protagonista nato dal non averne compatito i drammi.

La storia è quella di Jeanne, donna di famiglia ricca ma non ricchissima, educata in un convento e tornata dai suoi nell’800 francese. Troverà marito, avrà un figlio, lo manderà in collegio, questo partirà per Londra e poi Parigi lasciandola sola dopo la morte violenta del marito fedigrafo e quella naturale del padre. Una vita apparentemente non interessante ma nella realtà ottima per cogliere le caratteristiche base dell’umanità, che poi è il soggetto del cinema più ardito: trovare nelle esistenze più ordinarie la scintilla di meraviglia grazie allo scavo nell’animo umano. Senza che ci siano eventi mastodontici ad intralciare il percorso e distrarre, la vita di Jeanne dovrebbe raccontarci la parabola dolorosa di un animo sensibile vessato dal male del mondo (o degli altri, che sono il nostro personale inferno).

Brizé fa dunque la coraggiosa (ma anche modaiola) scelta di mostrare solo i momenti non interessanti e quotidiani. Molti eventi infatti fatichiamo a comprenderli, li desumiamo quando va bene. Un giorno nell’orto, un dialogo con la madre, uno con il padre, una lite, e poi l’abbandono, la noia e i problemi economici. Puntando come si deve sul martirio che si abbatte su un corpo femminile gracile e incapace di muoversi in una società che non comprende, il film non trova la chiave per metterci dalla parte della protagonista, comprendiamo le sue difficoltà ma non ne partecipiamo. Mancando la costruzione di un legame vero e forte con quest’essere umano che pare nato per essere vessato dalla vita, quando nel finale la sua mente vacilla e arriva a dire e fare le cose meno condivisibili la pena è in realtà sostituita dal fastidio.
Invece che rendere lo spettatore uno di famiglia, incline a compatire ogni cosa per la vicinanza alla vittima, lo tiene a distanza come un osservatore occasionale, ovvero facile a condannare e incapace di sentirsi parte in causa. Inutile dire che con una simile disposizione la noia è dietro l’angolo.

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