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20.5.17

Song To Song (id., 2017)
di Terrence Malick

Costretto ad adattare lo stile che aveva portato alle estreme conseguenze a partire da The Tree Of Life ad una narrazione più o meno canonica, ad eventi in sequenza (più o meno) e ad un’idea di trama, Terrence Malick realizza un ibrido tra i suoi primi 4 film e i successivi, quelli più meditabondi e centrati su un uso totale dell’immagine (come filo conduttore, centro dell’astrazione, polo d’attrazione dello sguardo e campo principale della sperimentazione assieme al montaggio).

C’è sempre Emmanuel Lubetzki alla fotografia, vero coautore degli ultimi film e cocreatore di uno stile imitatissimo, quindi le immagini e il gusto per la rappresentazione della luce sono quelle folgoranti a cui ci hanno abituati. In Song To Song ci sono dei momenti in cui sembra che tutto il film sia stato fatto solo per poter guardare come il sole al mattino entra dalle finestre nelle case e illumina porzioni di parete o di parquet, e per alcuni attimi sembra ne sia valsa la pena.

Ma in linea di massima tutto questo più le consuete voci fuoricampo stavolta sono utilizzati per raccontare 5 personaggi che, in momenti diversi, si stringono in coppie, si lasciano, litigano, formano sodalizi artistici o sperimentano altri tipi di sessualità. Come si conoscono, come si innamorano, come si rompono i loro idilli e come gradualmente tornano insieme. Temi da Woody Allen affrontati in maniere diametralmente opposte. In ogni storia c’è una forte aspirazione romantica e sentimentale che deve scontrarsi con gli ostacoli dei piaceri e del desiderio fisico, opposti che per Malick sembrano quasi non potersi conciliare.
Tutto è narrato per ellissi, come se guardassimo i ricordi di tutti i personaggi, mescolati.

La soluzione narrativa di Song To Song è infatti quella di mescolare i tempi, ed è bravo Malick a trovare sempre elementi che rendano chiaro in che punto della storia siamo (a tratti sono le capigliature di Rooney Mara, in altri momenti sono gli stili musicali che i personaggi seguono), il presente e i flashback, un rapido salto indietro e di nuovo l’oggi. Come nei ricordi diversi momenti si sovrappongono e si affiancano non necessariamente in maniera logica ma più in maniera emotiva, l’accostarsi cioè di una grande gioia con la sua fine, un piacere con le sue conseguenze. L’impressione è quella di seguire un viaggio parziale alimentato non dal desiderio di far comprendere gli eventi ma di rendere certe sensazioni.

È indubbiamente affascinante ma è anche vero che così facendo quello stile che The Tree of Life aveva esaltato, e i film successivi progressivamente stiracchiato fino ad esaurirlo, perde qualcosa. Malick sacrifica un po’ delle ambizioni solite e lascia per strada parecchio per inseguire una narrazione che poi davvero canonica non lo è mai e alla fine non soddisfa dal punto di vista della “soluzione” della storia. Non è un film convenzionale, né uno dei soliti di Malick. Non appassiona con un intreccio né ha la mirabolante densità visiva dei film precedenti ad calamitare.
Soprattutto è un film che, come spesso capita a questo regista, si snoda nella dialettica tra istinti bassi e aspirazioni alte, concludendosi all’insegna di un ritorno alla semplicità dopo un intero film di case piene di design minimalista, imperi della musica, concerti, celebrità, piscine, party, Ferrari e donne a valanga. Cinque attori bellissimi, cool e molto desiderati, tesi ad una predica sul vero valore della semplicità popolare e dei lavori manuali. La morale più usuale resa inaccettabile nel momento in cui è fatta tramite un gruppo di miliardari dalla popolarità devastante.

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