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6.9.16

Safari (id, 2016)
di Ulrich Seidl

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
FUORI CONCORSO
In mezzo alla savana, c'è una capanna di legno che ha un solo spiraglio, orizzontale, buono per far uscire il fucile e sparare. Tutto intorno è silenzio e sembra che nell'inquadratura non ci siano umani fino a che non parte uno sparo. Il pubblico in sala ride. È l'inizio di Safari, documentario di Ulrich Seidl che dopo In the Basement torna a raccontare i lati meno concilianti e più neri dell'uomo comune. Si ride in quell'inquadratura per senso d'ilarità che le parole non rendono, scatenato dal ridicolo della maniera in cui nella capanna qualcuno è letteralmente barricato nonostante intorno non ci sia niente e dalla potenza dello sparo che ne esce. Sembra una gag delle Looney Tunes.
Questo documentario potente e fantastico è già tutto in questa inquadratura, cioè qui è già presente la maniera in cui Seidl e la sua troupe riescono a guardare e far guardare allo spettatore la caccia grossa nella savana: l’ennesimo spettacolo squallido di uomini piccini che operano nascosti, al sicuro.
Il massimo della violenza perpetrato in una totale assenza di pericolo ma con estremo desiderio di potenza.

Come in un manuale del documentario da cinema Seidl lavora su due piani. Con il contenuto ritrae senza enfasi e con fare pseudo oggettivo i suoi soggetti, avventori di una riserva di caccia privata che seguono e sparano da lontano ad animali grossi (gnu, giraffe, zebre...), li intervista, gli chiede di esprimere le loro motivazioni e sensazioni e li osserva muoversi in silenzio tra la vegetazione meditando lo sparo. Con la forma invece Safari ha la capacità fuori dal comune di mostrare sempre l'inquadratura giusta, di sapere sempre cosa guardare mentre gli eventi si svolgono (e poi come montarli, in che ordine farli vedere) per scatenare qualcosa di superiore al contenuto delle singole immagini. Esiste in Safari un senso ambiguo di ordine e sicurezza che contrasta con il fragore degli spari e la violenza della morte. I cadaveri degli animali davanti ai quali i cacciatori si fanno le foto, assieme al grottesco dei loro ripari, l'ignavia di alcuni di loro e una clamorosa inabilità all'attività fisica.

Più che "perché lo fanno?", domanda che è dentro ogni spettatore quando il documentario inizia, Seidl sembra indagare come queste persone lo facciano, come si muovano negli spazi africani e che posizione occupino accanto agli animali, vicino agli africani, sdraiati a prendere il sole o chiuse nelle capanne a bere birra, in attesa di avvistare un animale in piena sicurezza. Ed è proprio questo senso di totale assenza di pericolo per i cacciatori, unito alla presenza della morte a scatenare un ridicolo fortissimo ed esilarante. Nonostante una crudezza ed un’efferatezza non mitigate (si vedono anche mattanze), Safari con il riso che suscita dimostra che un punto di vista può cambiare ogni soggetto ritratto.

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