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16.2.16

L'avenir (id., 2016)
di Mia Hansen Love

Una volta tanto è il titolo la parte più importante del film. Chiave di lettura imprescindibile per comprendere il vero cuore di questa storia di una professoressa di filosofia del liceo che pubblica qualche libro di testo, reincontra un vecchio studente ora dottorando in filosofia, si lascia con il marito (che ha trovato una più giovane) e sta appresso ai figli ormai grandi. Il racconto non è lontano da quel sottile scorrere lungo la vita che Mia Hansen Love aveva già magistralmente messo in scena in Eden, di più ha una proiezione in avanti che, specie nel finale, crea un’atmosfera indecifrabile come spesso è l’incertezza (contaminata di fiducia) nel futuro.

Ancora una volta la componente più apprezzabile dei racconti imbastiti da questa cineasta è come sappia lavorare bene sullo scorrere del tempo. Là dove un film solitamente si misura in giornate, i suoi sanno anche misurarsi in annate, ne passiamo diverse qui, ne vediamo molte susseguirsi e alle volte saltiamo avanti anche di un indefinito “qualche anno”, ma sempre quel che il film riesce a sollevare grazie all’ellissi è il senso del fuggire delle cose. Meno legata al rimpianto ma più forzata a guardarsi avanti Isabelle Huppert lavora (una volta tanto) di sottrazione.

Ci sono parecchi momenti in questo film nei quali si avverte una certa stanchezza, altri in cui lo si sente girare a vuoto, rincorrendo piccole sottotrame ininfluenti, tuttavia in una chiusa ospedaliera e poi casalinga, con quello che forse è il luogo comune più banale in assoluto per parlare di avvenire (una nuova vita), Mia Hansen Love ritrova quell’equilibrio narrativo inseguito per tutto il film tra rassegnazione e pace interiore, tra forza d’animo e serietà.
In un film che, a parole, è pieno di filosofia e discorsi su di essa, la regista riesce a scartare tutte le più banali prese di posizione per approdare alla descrizione di un modo di vivere gli eventi più comuni che è terribilmente umano e vicino allo spettatore.

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