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19.7.16

Alla Ricerca di Dory (Finding Dory, 2016)
di Andrew Stanton e Angus MacLane

Andrew Stanton è forse il più talentuoso tra i registi Pixar, non necessariamente quello con i film più importanti sulle spalle ma di certo quello delle soluzioni più audaci e con il tratto più personale. Sua è quell’idea dell’abbandono e del ritrovarsi perduti senza speranza che pervade moltissimi film dello studio (non è un mistero che alla Pixar tutti i registi collaborano a tutti i film in una maniera o nell’altra), idea che ha avuto la massima espressione in due film da lui direttamente curati: Alla Ricerca di Nemo e Wall-E.
Si tratta di quel momento quasi sempre presente nelle storie Pixar in cui uno o più personaggi si perdono o sono abbandonati in luoghi da cui è facile credere che sia impossibile tornare indietro. Molto piccoli di fronte all’immensità delle distanze, i protagonisti in quei momenti si trovano spesso senza speranze e tutto sembra perduto di fronte a spazi incolmabili. Sono il benzinaio di Toy Story, l’Himalaya di Monsters & Co., la discarica dei ricordi di Inside Out….

Alla Ricerca di Nemo era la sublimazione di tutto ciò. L’impresa che il film riusciva bene a rendere impensabile era quella di un pesce piccolissimo che non solo deve attraversare l’oceano ma anche andare fuori dall’acqua e dentro un appartamento umano per riprendere il figlio. Alla Ricerca di Dory si basa sul medesimo assunto, una ricerca folle lungo distanze impossibili per i protagonisti, eppure non riesce a rendere quel medesimo senso di “tutto è perduto” se non in qualche breve momento. Anche perchè contrariamente al primo film la scelta non è di giocare paradossalmente mantenendo i piedi per terra (sempre partendo dal presupposto che i pesci parlano!), ma di lasciarsi prendere da iperboli e soluzioni assurde e implausibili. Da questo punto di vista, quello del sequel puro che ripete e amplifica l’elemento centra dell’originale, il film è un fallimento.

Per fortuna è l’unico ambito in cui il film può dirsi fallito, perché mettere al centro di tutto Dory significa inevitabilmente giocare con la memoria. I molti modi in cui il film mette in scena il meccanismo dei ricordi (a partire da flashback simili a quello del piccolo critico Ego in Ratatouille) ha del magistrale. Ci sono sfondi che sbiadiscono assieme alla memoria, voci in background che scatenano madeleine (anzi, tutto scatena madeleine), canzoncine, filastrocche e altri sistemi di memorizzazione ma anche le classiche confusioni creative di Dory, oggetti rivelatori e via dicendo. Perché, lo si capisce verso metà film, l’impresa vera qui non è il viaggio (che in effetti dura anche poco) ma quella di un personaggio che lotta come un leone contro i propri limiti, e il modo sempre più disperato e cocciuto con cui Dory si sforza di ricordare o di non dimenticare, cioè si sforza di essere migliore, convinta che è solo così che sì meriterà di trovare i propri genitori, è sempre più commovente con l’avanzare del film e l’aumentare delle difficoltà.

Fedeli alla linea di non essere mai come gli altri questa volta la Pixar in un sequel prende il più comico dei dettagli del primo film e lo allarga, con dolcezza, a tragedia. Dory ha perso tutto per la sua memoria ed è la stessa cosa che le impedisce di ritrovare tutto, e alla fine non il limite diventerà un vantaggio (la Pixar non è mai così buonista) ma forse ci si potrà convivere. Alla Ricerca di Dory ci dice che quel che a prima vista ci fa ridere, cambiando prospettiva può farci piangere (cioè Pirandello) e lo fa con un film a lungo ambientato in un luogo solo (un istituto oceanografico) come Toy Story 2, che replica quasi pedissequamente la struttura del precedente (compreso il doppio finale) e che, come sempre, non sbaglia la scena madre. Il momento atteso fin dall’inizio è infatti reso tramite un’idea visiva struggente, in grado con un’immagine di raccontare più di quanto potrebbero fare le parole anni e anni di disperate ricerche familiari.

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