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10.2.17

Incarnate (id., 2016)
di Brad Peyton

Un filmaccio di serie B dai valori produttivi sotto le scarpe, come è Incarnate, ha il dovere morale di guadagnarsi un senso (nonchè i soldi del biglietto), giocando sulla propria libertà espressiva, cambiando un po’ le carte in tavola, prendendosi dei rischi e cercando di reimmaginare il classico. Che poi è la carta che gioca ogni volta, e con successo, la Blumhouse.
Condannato a partire da presupposti abbastanza noti e certi (glielo impone il genere e le sue dinamiche di attrazione del pubblico), un B movie come Incarnate dovrebbe liberarsi ben presto dalle sue catene e usare la gabbia di una trama convenzionale per mille piccole variazioni o, se non altro, per trovare una goduria e una comunione con un pubblico inevitabilmente affiancato ai propri gusti. Incarnate invece è un continuo inciampo in ognuna di queste regole non scritte.

L’unica idea del duo Ronnie Christensen (alla sceneggiatura, una garanzia della serie Z, il cui ultimo film era un “thriller di tette” con Hale Berry in costume tutto il tempo) e Brad Peyton (autore di San Andreas e altre amenità) è di aggregare, replicare, copiare e basarsi su tutto quel che già esiste in una serie abbastanza vasta di campi. La storia di un uomo che per liberare i posseduti entra nei loro sogni e affronta demoni di una razza che non hanno a che vedere con nessuna specifica religione (è tenera la maniera in cui il film tenga tutto molto vago per prestare il fianco ad una serie ampia di sequel e prequel che non vedremo mai), usa immagini e soluzioni oscillando tra Inception, Linea Mortale e i film di possessione, ma è determinato a non creare nessuna mitologia da sé, solo a replicare svolgimenti e linee di sceneggiatura da altri script.

A questo punto potrebbe (o dovrebbe) aiutare il protagonista, Aaron Eckhart, contribuendo a creare un personaggio dall’originale modo di muoversi, pensare e portare anche le battute più banali. Invece, in linea con il film, Eckhart sembra non voler inventare niente e anzi cercare di superare in senso del kitsch emo anche quell’abisso che è stato I, Frankestein.
Perché se tutti i film di esorcismo puntano sul rendere tangibile qualcosa che non lo è, con vomiti, urla, oggetti e confronti che mettono in mezzo la resistenza del corpo in una battaglia che dovrebbe essere di spirito, Incarnate vola ancora più basso e, con le sue incursioni oniriche, riesce a far letteralmente picchiare esorcista e demoni. La lotta per la purezza di un anima è una scazzottata.

Avendo preso forma concreta nella mente del posseduto, i demoni si affrontano su un piano fisico, proprio a pugni in faccia e calci in bocca. Purtroppo però Peyton non ha nemmeno la grazia di organizzare con dovizia i momenti di confronto fisico.
Con una certa confusione, una buona dose di pigrizia nel creare l’illusione di uno scontro vero di due corpi e tantissima fretta nel portare a termine il tutto (con un finale rubato al più noto film di esorcismo), Incarnate, arrivato al suo finale aperto senza nessuna sorpresa, ha ormai sfondato la porta della compassione e si fatica anche a volergli male.

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