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19.5.16

Fiore (2016)
di Claudio Giovannesi

QUINZAINE DES REALISATEURS
FESTIVAL DI CANNES
Il vero protagonista di questo ultimo film di Giovannesi, almeno per la prima metà, non è nè Daphne, la minorenne ladra di telefonini che finisce in galera quasi subito, nè Josciua, il ragazzo violento che incontra dietro le sbarre, ma il carcere che li contiene. È quel luogo in cui uomini e donne non possono nemmeno parlarsi perchè rigorosamente separati e che tuttavia ha una serie di straoridinari punti in cui il contatto può avvenire lo stesso, a conquistare e a farlo visivamente. La sua piantina è il segreto romantico dei due personaggi e lo spettatore impara a conoscerne i punti, gli angoli e gli snodi più importanti. Di scena in scena il film insegna a chi guarda a misurare la distanza tra la rete dietro cui sta Daphne e le sbarre da cui si affaccia Josciua, mostra l'insolenza sentimentale con cui Daphne rompe le righe per saltare contro la finestra da cui è affacciato Joscia e baciarlo, mentre tutto lo staff la strappa via, e infine si strugge nei dialoghi urlati da finestra a finestra.

Se la prima parte di qesto gioiello di film, quella della nascita di un amore così semplice e banale che commuove, è la più riuscita è anche e soprattutto per la maniera in cui lo spazio scenico della galera è utilizzato, per come i carrelli in cui lasciarsi i messaggi sono lasciati in un angolo sporco, per come non sono enfatici i punti in cui avviene tutto. Sembra che più Giovannesi utilizzi gli spazi per rendere la distanza, più il senso romantico cresca, più i personaggi si trovino in posti che raccontano la difficoltà con le loro barriere, più la loro lotta diventi concreta.
Nella sua seconda parte poi Fiore diventa anche qualcos'altro, si apre a dei coprotagonisti, aggiunge l'aria esterna alla galera e segue la sua protagonista anche fuori dal carcere, là dove quella sete d'amore che l'ha spinta nelle braccia di un ragazzo nell'ultimo luogo in cui ciò deve avvenire (proprio perché tiene uomini e donne separati), cerca altre fonti per dissetarsi. È un padre un po' riluttante ad interpretare il suo ruolo, incarnato con particolare pregnanza da Valerio Mastandrea, ad essere identificato infatti da Daphen come destinatrio delle sue attenzioni e aspettative.

A questo punto qualsiasi altro film molto più banale e desideroso di acchiappare a tutti i costi il suo pubblico avrebbe continuato sul medesimo tono dell'inizio, spingendo sul melò, mettendo quindi questo genitore sconfortante in condizione di deludere la figlia con un ordine sempre crescente di intensità. Fiore non è così. Giovannesi regala a Mastandrea il beneficio della complessità che solitamente si riserva ai protagonisti, per mettere in scena un mondo dalle risposte mai facili. Dunque anche ciò che nella parte melò del film è necessariamente il lato "cattivo", la matrigna straniera e bastarda, il padre anaffettivo che priva la protagonista di amore, nella seconda beneficia di sfumature e si stacca con una nettezza e una decisione impressionante da quelle caratteristiche di cinema di serie B in un abito di serie A che sembrava aver assunto. Proprio quando pensiamo di aver capito cosa sia il film a cui stiamo assistendo questo ci stupisce, di fatto affermando la sua aderenza alla realtà con la stessa forza con cui lo fanno i volti dei due amanti, veri e lontanissimi dagli standard di regolarità e perfezione degli attori professionisti.

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