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13.2.16

L'ultima parola (Trumbo)
di Jay Roach

La storia di Dalton Trumbo ha i caratteri dell’eccezionalità perché è effettivamente una vera parabola che non necessita di forzature per seguire il tipico svolgimento dei film. Lo sceneggiatore migliore di Hollywood negli anni ‘40 è un fervente comunista e come tale viene inserito nella blacklist di quelli che “non devono lavorare”, di colpo nessuno lo prende più. Per evitare il tracollo finanziare comincia a scrivere sotto pseudonimo film di serie C, arrivando di nuovo alle pellicole importanti dopo anni, sempre con un altro nome. Così, da anonimo, vince due Oscar.

Non c’è davvero da stupirsi se Bryan Cranston si trovi quest’anno tra i nominati agli Oscar, la maniera in cui decide di rappresentare non tanto la persona Dalton Trumbo, ma le sue paure e le vie per le quali la condizione in cui viveva influiva sulla sua personalità, ha del fenomenale e può essere considerata una delle punte maggiori dell’arte della recitazione contemporanea. Sia dal punto di vista della delicatezza dei piccoli gesti, sia da quello dell’eccesso delle grandi sparate, che infine nella varietà di volti ed espressioni differenti (sembra che quell’uomo non provi mai la stessa emozione visto come Cranston varia la sua interpretazione) o ancora nella falsità che riesce ad esibire (si veda all’inizio quando, presente sul set, ride tra il fiero e l’imbarazzato ad una battuta di Edward G. Robinson), Trumbo non è mai reale ma sempre finto eppure concreto, credibile, comunicativo.

Questo film dallo svolgimento più che canonico, instradato sui binari della grande conquista di diritti, della passione e redenzione di un uomo geniale non riconosciuto dal sistema, è un one man show che facilmente poteva deragliare proprio per questo motivo. Invece quel gigante di Cranston non attira mai solo su di sè la luce ma usa la propria bravura per servire il film, non c’è sfumatura che non sia funzionale al procedere della trama, non ci sono assoli non c’è sfoggio di niente. C’è solo un uomo che lavora bene.

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