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4.7.17

L'Infanzia Di Un Capo (The Childhood Of A Leader, 2017)
di Brady Corbet

Fin dall’attacco dello score, così potente e inusuale sulle immagini di repertorio delle grandi dittature del novecento, un senso di spaesamento attacca lo spettatore. Sarà la sensazione prevalente (assieme alla repressione) di tutto L’Infanzia Di Un Capo. Questo film che ambisce alla rarefatta meschinità di Haneke, a quella capacità di lavorare sull’andare sempre a braccetto di violenza fisica e psicologica (come se la seconda fosse l’araldo che annuncia la prima), mette in scena in tre atti, lungo tre capricci, la maturazione di un bambino di un bambino che, ce lo dice il titolo, diventerà un capo, qualcuno che amministra la violenza al livello più alto.
Come se partisse dagli studi di William Reich (quelli che individuavano nella famiglia la fabbrica dell’ideologia di stato) e volesse aggiustare Il Nastro Bianco (cioè il racconto di come il terzo Reich sia nato dal clima repressivo del secondo Reich) rendendolo più universale, Brady Corbet gira un esordio complicatissimo e di ammirevole ambizione.

Prescott, il protagonista, è un bambino ribelle in un contesto in cui sembra ci sia ben poco da ribellarsi, in una casa dura, con un padre inflessibile impegnato nell’organizzazione del Trattato di Versailles, una madre anaffettiva, una donna di servizio amorevole (che per questo sarà cacciata) e una precettrice giovane e piacente. C’è poco da ribellarsi perché non esiste margine per l’insubordinazione, subito repressa, subito spenta nella violenza. Prescott però è furbo e nonostante non abbia più di 12 anni più volte risponde a questa repressione con strategie, tradimenti e atti clamorosi, è un bambino che non cede alla repressione, anzi la combatte. Nella trama c’è un po’ dell’omonimo racconto di Sartre e un po’ di Il Mago di Fowles, secondo l’autore, ma in realtà non si nota.

È evidente semmai l’intento didascalico nell’esagerata meccanicità con cui L’Infanzia di Un Capo afferma che dal Trattato di Versailles, cioè la riorganizzazione dell’Europa dopo la Prima Guerra Mondiale, sono emerse le grandi dittature, mettendo uno di questi dittatori a formarsi là dove il trattato è organizzato. E benché non voglia mai collegare il leader del titolo ad una figura esistita ma preferisce sommare caratteristiche di molti dittatori noti, l’intento scolastico rimane.

La parte più succosa allora è la grandeur a budget contenuto dello stile (una prospettiva sconosciuta ad Haneke), la maniera in cui Corbet rende ampia una ricostruzione più che altro domestica, il piacere che il film stesso riceve dal suo essere calcato sui dipinti d’epoca, sulla luce tenue dei quadri, su interni rovinati e su una mestizia generale che contrasta magnificamente con la furia del protagonista. Quei colori e quella messa in scena solitamente acquietanti e versati nella direzione del delicato affresco qui sono un’alcova di violenza.

La mano di Corbet, che fino a ieri era un attore (visto in Melancholia e, forse non a caso, nel remake di Funny Games), è insomma la migliore, non ci sono dubbi, gestisce tempi e scene di tensione e rabbia con grande abilità, ma l’impressione è che il meglio lo dia quando abbandona il calco di Haneke e va verso lidi inediti, come il finale sokuroviano con musiche da thriller hitchcockiano, in cui prende di petto la sua fantastoria creando un originalissimo e personale tono tragico e imminente, da fine del mondo.

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