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17.5.16

The Handmaiden (Agassi, 2016)
di Park Chan Wook

CONCORSO
FESTIVAL DI CANNES
Non c'è film di Park Chan Wook in cui si sfugga alla minaccia e allo spettro della violenza, prima annunciata e inferta psicologicamente poi materializzata. E nemmeno The Handmaiden lo può fare.
Fa ridere definire un heist movie questo nuovo film di Park Chan Wook che racconta la storia di un finto Conte coreano che ha l'obiettivo di sedurre una nobildonna giapponese, sposarla e levarle i soldi. Il Conte per riuscirci si associa ad una popolana bisognosa di soldi che fa assumere come dama di compagnia della sua vittima, così da avere un accesso privilegiato al suo mondo intimo. Le cose non andranno come preventivato (o forse si) e proprio i tre tempi della storia mostrano i mille gangli di una trama di inganni.

La trama dice heist ma in realtà Park Chan Wook non vuole divertirsi a raccontare l’intreccio. Certo ci sono tre tempi di durate variabili nel film (sempre più corti), tre punti di vista differenti sulla trama ma a parte questo, il cuore sta in quello che la truffa scatena. Mascherato da Takashi Miike, Park Chan Wook utilizza lo schema dell'infiltrazione in una famiglia altrui per farci scoprire il piccolo mondo sadico di un signore giapponese appassionato di torture e pratiche sessuali estreme, svela le scene di sesso a poco a poco, passando da un pudore estremo ad una sfacciataggine che ben si abbina con le rivelazioni della trama, infine chiude con grandissima efferatezza, con una punizione corporale e morale ai personaggi più abietti.

Come se non si finisse mai di scoprire nuovi elementi su questa famiglia, come se non si terminasse mai di conoscere davvero i personaggi, The Handmaiden gira in cerchio e ad ogni giro stringe la circonferenza intorno ai suoi protagonisti per guardarli meglio, ad ogni passaggio svela un dettaglio che altri registi avrebbero ritenuto fondamentale. Qui di fondamentale invece c'è solo il risveglio dei sensi che avviene nei personaggi come nel film attraverso la liberazione dalla violenza e l'accesso al sesso. Un sesso che quando è messo in scena è guardato per goderne senza remore, per mostrare come sia una questione di pelle e carne più che di amore.

Nei film di questo regista che dirige con il rigore di un ingegnere, c’è sempre l’idea che la violenza sia prima nella testa e poi negli atti, che ci sia una contrasto tra quello che pensiamo o ci raccontiamo o prevediamo riguardo al vivere violento e poi il farlo davvero. In questo intreccio che a sorpresa (ma non troppo) finirà per svelare un mondo di sadismo, sembra di vedere la parte nascosta di tutti gli altri film del suo genere. Come se ogni melò potesse nascondere uno scantinato di attrezzi di tortura, libri sul sadismo e rituali durissimi. Come se tutto questo amore per il dolore fosse connaturato in quel genere, solo che gli altri non hanno il coraggio di mostrarlo.

Ancora più nello specifico alle volte The Handmaiden sembra chiedersi in quante maniere diverse possiamo provare dolore. Ci mostra prima il dolore del senso di colpa, poi quello più cocente dell'umiliazione infantile, poi quello dei racconti sadici letti all'interno del film e poi ancora quello materiale delle botte, i tagli e le frustate. Cosa è peggio tra un sadico che tortura le membra fino a staccare le dita e una repressione che dura anni? Cosa è meno sostenibile per lo spettatore tra l'umiliazione di un personaggio e la rappresentazione di una tortura? I disegni che tempestano il film, illustrano in maniera artistica ed stilizzata pratiche sessuali dolorose (c'è un disegno di un polipo che ricorre, è bellissimo, ma quando vedremo l'animale dal vivo sarà terrificante), quest'arte allevia il dolore allo stesso modo in cui il film sembra in grado di gestire il grado di efferatezza delle sue immagini.

Ogni storia che guardiamo al cinema, lo voglia o no il film, tratta dell'importanza dell'atto del guardare, perché è ciò che gli spettatori fanno. Alcuni film ne sono più consci di altri e The Handmaiden, anche se privo dell'eccitazione psicopatica di Takashi Miike, prova un piacere evidente a guardare e far guardare sia il godimento che il dolore ma lo fa con un rigore estremo che se non può soddisfare tutti è anche evidente che merita l'ammirazione più devota.

NB: Si intuisce che l'uso delle lingue costituisca un livello ulteriore di lettura degli eventi. La maniera in cui si passa da coreano a giapponese o in cui i personaggi dimostrano di padroneggiare prima l'uno poi l'altro in maniere differenti sembra contare molto. Questo purtroppo si perde sia nella versione doppiata che in quella originale (a meno di non conoscere una delle due lingue).

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