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10.9.17

Manhunt (id., 2017)
di John Woo

FUORI CONCORSO
MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
C’è un segno evidente che Manhunt è un film pensionistico, uno di un regista che per quanto immenso si trova nella fase pantofolaia della sua carriera: l’uso del green screen.
Per quanto John Woo in Manhunt dimostri di essere capace di partorire e immaginare ancora alcune tra le scene d’azione più inventive e divertenti, di saperle riprendere per dire qualcos’altro che non siano i soli eventi, l’uso e l’abuso di computer grafica esattamente in quei punti in cui una volta usava veri stunt uccide la componente fondamentale del suo cinema.
I suoi wuxiapian polizieschi in cui la realtà si piega alle leggi della poesia, diventano opere di un regista seduto e non di uno in piedi grazie al green screen più povero. E il rifiutare una lavorazione più ardita e complessa non sembra nemmeno avere nulla a che vedere con l’età (basta vedere cosa fanno Scorsese o George Miller).

I green screen sono la punta più evidente ma tutto Manhunt è un film seduto. Doppiatissima senza trovare sempre il sync migliore (il fastidio è tale anche per lo spettatore occidentale nella versione originale), la storia di Il fuggitivo, in realtà presa dal romanzo che già era diventato film con Manhunt (1976), diventa qui un duetto tra un giapponese braccato e un cinese delle forze dell’ordine che lo cerca ma poi capirà che il nemico è un altro e si alleerà con lui. Pretesto come sempre per agitare due persone che mirano ai valori più elevati, Manhunt ha un villain da episodio di Supercar (con un laboratorio maligno in pieno stile) ma non importa. Non è da questo che si giudica un film di John Woo.

Semmai è dalle posizioni dei personaggi, dalla maniera in cui lottando si guardano e si aiutano, dal mutare delle relazioni lungo la storia, da come l’uso del ralenti sia sfruttato per dare un senso diverso alle stesse scene che altrimenti non potrebbero essere così cariche e barocche. Infatti, dopo anni in cui ha portato alla massima sperimentazione la tecnica, qui John Woo confonde il ralenti in quasi tutte le inquadrature, non solo nelle scene d’azione. Usato per amplificare la stilizzazione è anche un dispositivo che sottolinea l’ordinario, è la celebrazione del proprio stile che si ritrova anche nei dialoghi e nei momenti meno clamorosi.

Per questo motivo il vero grande problema di Manhunt, il motivo per il quale a fronte di tanto impegno per “essere un film di John Woo come quelli di una volta”, non riesca mai davvero ad esserlo, sta non nell’abuso di ralenti o di colombe, ma semmai nella sbrigatività degli snodi chiave. Non c’è film di John Woo in cui gli eventi non siano caricati di un’enfasi barocca, ma se in passato questa era costruita e sorretta in modo che apparisse quasi necessaria, qui i passaggi chiave sono introdotti con una rapidità tale da non essere credibili, non sono epici come dovrebbero, sono percorsi brevi a cui si crede malvolentieri.

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