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27.9.17

Tiro Libero (2017)
di Alessandro Valori

Nonostante la pallacanestro nella locandina, nella trama, nel titolo e nel materiale promozionale, Tiro Libero non è un film di pallacanestro. Tiro Libero è un film di Dio. E non uno generico. È un film di cristianesimo.
Con pochissime sequenze all’inizio e giocate molto male, in maniera fasulla, ad un ritmo che non è quello del vero sport e con una meccanicità che fa intuire immediatamente l’artificio, la pallacanestro vera è confinata solo in quella scena, il resto del film sarà invece una parabola da catechesi sull’uso dei talenti e sulla conversione ai veri valori della misericordia.

Basterebbe anche solo la maniera in cui è delineato il protagonista all’inizio, con un egoismo e una superbia così artefatte da far intuire immediatamente che sono lì a suggerire il contrario, non a cercare di far partecipare il pubblico ad una condizione umana ma a stabilire che siamo tutti daccordo nel condannarla, prima di passare alla corposa parte di conversione tramite la scoperta della malattia. Anche se poi il protagonista già crede in Dio, ci parla, ne accetta l’esistenza e ci interagisce senza risposte anche prima di migliorare tramite il contatto con i più bisognosi, ovvero i bambini paraplegici ma desiderosi di imparare a giocare a pallacanestro. In questo film anche il senza Dio già crede in Dio. In Tiro Libero proprio la religione non è in questione, è ambientato in un mondo in cui è una realtà accettata e professata da tutti. Non c’è nemmeno bisogno di dirlo.

Non c’è bisogno di dire che non siamo dalle parti della pallacanestro per disabili vista in Carne Tremula, una disciplina che trasuda sforzo e determinazione, ma sarebbe bastato anche solo uno svolgimento più tormentato per far comprendere sia la serietà della disciplina, sia la fatica e la forza di volontà. Invece il processo di trasformazione di un superbo ed egoista in un altruista (e buon cristiano) tramite l’incontro con i più bisognosi all’interno dell’evidente disegno che nostro signore ha in mente per lui, è un’annunciata sequela di piccoli problemi che somigliano a quelli inventati per una predica: innocui, innocenti, mai veramente complessi, incredibili. Un film colorato con i pastelli più chiari e sbiaditi, e mai con quelli più decisi.

Tutto questo si scontra in ogni scena con l’incredibile enfasi posta su una recitazione incapace di sostenerla. Come se fossimo a teatro le battute sono portate con un peso e una dedizione tali che in ogni momento ci si chiede se in realtà i personaggi non abbiano un doppio fine e non stiano essi stessi recitando quello che dicono. Talmente è esagerato il tono con cui il film è recitato che il migliore risulta (a totale sorpresa) Paolo Conticini, l’unico ad andare per fatti propri, riproponendo in automatico il suo solito personaggio da commedia natalizia e il suo solito tono. Insensato nel film (una specie di avvocato di puttaniere che viene conquistato praticamente subito dai bambini paraplegici e dalla loro squadra di pallacanestro) se non altro il suo personaggio è recitato in maniera accettabile.

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