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7.6.15

Amy (id., 2015)
di Asif Kapadia

Il dato più importante di Amy, al di là del personaggio e della storia, è senza dubbio quello di essere il primo documentario biografico ad appartenere al genere found footage, il primo cioè a somigliare ai film (spesso dell'orrore) girati con macchina a mano che fingono di essere stati ripresi dagli stessi protagonisti della storia. In Amy, per lunghi tratti, il materiale di repertorio mostrato è quell'infinità di video prodotti dalla famiglia della protagonista o dal suo agente o dai suoi produttori negli anni '90 e poi fino al 2005. È un materiale stupefacente non tanto per la vicinanza alla protagonista (quello si è visto anche in altri doc recenti che godono di materiale di repertorio "casalingo", siano i Super8 o le altre forme commercializzate dagli anni '70 in poi) ma per la maniera in cui "mette in scena" momenti tipici da film biografico con gli strumenti per l'appunto del found footage.

Nella prima parte di Amy, quella dagli esordi fino al raggiungimento della fama, ci sono momenti che non stonerebbero nei film di finzione biografici più kitsch. La cantante in bagno prima di uno dei suoi primi concerti importanti, mentre mette a punto quel trucco che poi sarà un marchio di fabbrica e contemporaneamente mostra dell'erba, premonizione della futura dipendenza da droghe più pesanti, potrebbe essere un estratto dalle ricostruzioni più ruffiane e fasulle, invece è reale, un vero pezzo di video amatoriale che diventa cinema una volta inserito in un'opera più grande, incastrato tra altre clip e reso parte di una narrazione complessa. Privata di ogni patina di gusto ed estetica che il cinema biografico applica ai suoi protagonisti quella scena, immersa nello sporco di un bagno di periferia e illuminata malissimo con luci naturali che tradiscono mille difetti del volto è uno schiaffo. Come se il cinema non avesse inseguito la realtà ma la realtà filmata facesse di tutto per somigliare al cinema.
A questo punto la complessità della narrazione di Kapadia sta nel cercare di ricostruire il poco tempo in cui Amy Winehouse è entrata nell'industria discografica (dal 2000 al 2011) tramite un arco narrativo che parte dalla vicinanza (i video casalinghi per l'appunto) e sempre di più si allontana, finendo per mostrare solo immagini televisive, riprese dei concerti, video YouTube o dei paparazzi. Se c'è un punto di vista che Amy decide di avere su questi eventi è quindi quello degli amici, quelli che l'hanno vista allontanarsi non all'aumentare della fama, ma all'aumentare della dipendenza dalla droga e del controllo su di lei esercitato.

Come già in Senna Kapadia ha per le mani del materiale inedito incredibile (foto scattate dalla stessa Winehouse nei suoi periodi peggiori, quando mostra un fisico e un volto da olocausto se non proprio da cinema del terrore, come anche riprese della controdiretta londinese dei Grammy, in cui il suo sguardo desideroso, sognante e sospeso sembra l'opera della miglior attrice possibile, qualcosa che spontaneamente è raro che accada) del quale fa un uso sentimentale, senza mai negarlo. L'obiettivo di commuovere è evidente fin dall'individuazione di un nemico chiaro (la famiglia, ritratta nella peggiore delle maniere possibili, senza appello) e dalla struttura in crescendo. Più il video si allontana dall'amatoriale, più Amy si allontana dall'umanità, diventa un fantasma, lontano, emaciato e privo di sentimenti (per questo compatito). Se nei primi video, sorride, parla, ama, scherza e si dimostra più sveglia di quanto non avremmo mai detto, negli ultimi quasi non parla mai se non biascicando (c'è della malizia nell'accostare solo quei momenti ma Kapadia è abbastanza chiaro nel dimostrare di non voler essere imparziale nè obiettivo). A quel punto l'esposizione dei pochi momenti di gioia (per l'appunto la vittoria dei Grammy o le registrazioni con Tony Bennet) al pari di quelli più amari (il concerto che si rifiuta di fare) assumono un valore anche superiore a quello che avrebbero in sè. Come nei film di finzione queste sono le scene madre, si portano sulle spalle il peso di un sentimentalismo represso ma costruito nel resto del film e utilizzano quella struttura oppositiva (genitori e management=cattivi; amici=buoni) che tanto si è affannato a costruire.

Come i film biografici di finzione insomma Amy non è assolutamente imparziale, nè obiettivo, non vuole capire ma commuovere, non mostrare ma dimostrare. Evidentemente si tratta degli scopi meno nobili, tuttavia qui sono condotti con una capacità di ripensare le consuete strutture del documentario biografico, partire da una vita e da una documentazione nuova e impensabile in altri anni, che non possono che impressionare.

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