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28.9.17

Chi M'Ha Visto (2017)
di Alessandro Pondi

Gli auspici sembrano essere i peggiori quando una musichetta generica e i titoli di testa in un font giallo ocra che gira dalle parti del western accompagnano panoramiche di un paesino caratteristico sorvolato con il drone. La cattiva impressione è poi confermata quando il volo di drone stacca sulla prima scena, una cameriera di bell’aspetto che esce da un baretto umile per servire i pochi clienti attempati che sono seduti fuori. Il clichè per antonomasia del cinema italiano iperlocalizzato, quello del ritorno al piccolo, della fuga dalla modernità e che identifica nella provincia e nell’arretrato gli unici possibili veri valori.
Per fortuna a Chi M’Ha Visto accade quasi subito qualcosa di imprevedibile: viene completamente dirottato dai suoi attori sotto la guida del capopopolo Pierfrancesco Favino.

Mentre Beppe Fiorello è intento a fare il protagonista, il chitarrista turnista dei più grandi artisti italiani che non riesce a sfondare da solo e decide di scomparire artificiosamente per “fare notizia” ed essere cercato (ha anche la rituale storiella d’amore densa di clichè con un’improbabile prostituta laureata), Favino, suo migliore amico nella finzione, ruba letteralmente ogni scena, diventando il vero polo d’attrazione di tutto il film fino a trionfare clamorosamente in una ricostruzione televisiva degli eventi che abbiamo visto, fatta per la trasmissione che dà il titolo al film. Un gioiello di recitazione nella recitazione.

Chi M’ha Visto è infatti un film sulla televisione, sull’ansia di apparire, su un musicista che non riesce a sfondare per merito e cerca di farlo senza merito. Tutto è in mano al protagonista ma nulla di significativo passa davvero da lui, tanto è improbabile questo chitarrista lodato da tutti ma che quando suona fa uscire dalla chitarra una specie di muzak da ascensore, rock generico e senza personalità, che perde la tintura dei capelli non appena si rifugia in provincia e che alla fine non contento della marginalità raggiunta in Puglia capirà che deve andare in un posto ancora più remoto, a fare il cuoco in una spiaggia esotica.

Nonostante fino alla fine Alessandro Pondi (esordiente alla regia con una solida esperienza da sceneggiatore in commedie a bassissime tasso di risate quali Natale a Beverly Hills, Natale In Sudafrica, Poli Opposti e Bibo Per Sempre) faccia di tutto per dare al suo film un’aria generica, priva di personalità e soprattutto ritagliata su standard più che altro televisivi, sia per sentimentalismo alla buona che per inutile e inefficace intensità nei momenti di maggiore ardore, Favino (e da un certo punto in poi anche Sabrina Impacciatore), ribaltano qualsiasi scena mettendo se stessi al centro con una capacità di riempire l’immagine e la sceneggiatura di una personalità talmente magnetica da sopprimere tutto il resto e riempire il film di sé.

Il primo ha aderito ad interpretare un comprimario che tuttavia nel corso del film diventa il protagonista della storia, la seconda è un personaggio marginale che nel finale acquista una centralità esilarante, entrambi lavorano di mestiere, interpretazione e dettagli per trovare nei loro personaggi un umorismo che prescinde da ciò che dicono e dipende tutto da come lo dicono.
Nonostante infatti Favino qui si inserisca nella grande e incomprensibile tradizione degli attori italiani che recitano in un dialetto che non gli appartiene (lo fecero Sordi e Manfredi in Venezia La Luna e Tu, lo fece Celentano in Serafino e Rugantino, lo fece Kim Rossi Stuart in Vallanzasca e lo fa ora qui anche lui, un romano che fa un verace pugliese), il suo Peppino sembra uscito da Boogie Nights, ha un sorriso eccitato contagioso ed uno più imbarazzato che alterna con grandissima sapienza.

Come può fare solo un attore (e non di certo un comico prestato alla recitazione) Favino non pronuncia battute ma crea un personaggio che è esilarante per ciò che è, per come vive e si comporta, per la relazione che stabilisce con il resto del mondo (alcuni dei comprimari del film, Don Julio in testa, sono fantastici) e con le persone che gli sono vicino. Solo così riesce a far ridere anche quando, senza motivo e come se fosse obbligatorio, tratta malissimo la dolce prostituta.
In questo sta la parte migliore del film, l’unica che racconti sul serio qualcosa dell’ossessione del comparire, che ci faccia davvero guardare la televisione che più conosciamo nel comportamento di un uomo che se n’è abbeverato.

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