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18.5.18

Dogman (2018)
di Matteo Garrone

CONCORSO
FESTIVAL DI CANNES
Per definizione in un film di Matteo Garrone non può esistere l’errore di casting. Perché sono film che partono dagli attori (o non attori), dalle loro facce e dai loro corpi, e aderendo ad essi si formano. Come sempre girato cronologicamente (prima la scena, poi la seconda, poi la terza ecc. ecc.) anche Dogman non fa eccezione e addirittura è così legato alle fattezze e al contributo dei suoi protagonisti che pure il finale, molto diverso dal fatto di cronaca, suona come l’unico davvero coerente e sensato al termine di quel viaggio con Marcello e Simoncino.

Marcello ha un salone di bellezza per cani e una figlia, da una moglie da cui ha divorziato, che è la luce dei suoi occhi, con lei fa tutto e per lei farebbe di tutto. Vive nella periferia estrema, in un quartiere che pare un villaggio nel quale si vogliono tutti bene e lui è benvoluto. Purtroppo è suo amico anche Simoncino, ex pugile violento e cocainomane che lo vessa, umilia e lo porta a forza sulla cattiva strada. Tutti temono Simoncino, che sparge panico nel quartiere e fa danni, molti meditano soluzioni radicali (in quella zona non si va per il sottile), Marcello però con la sua indifesa tenerezza ne è la vittima preferita.
La vita di Marcello inizia e finisce tra la figlia, i cani e il quartiere e Simoncino la sta mandando in pezzi.

C’era un territorio in cui Matteo Garrone non si era ancora spinto: quello della tenerezza, della dolcezza e dei sentimenti migliori. Abilissimo a lavorare nei contesti duri come non vediamo mai in nessun altro film, questo regista che pare non saper sbagliare un film, ha sempre dimostrato una certa predilezione per il nero (che pure non manca in Dogman), tono che il suo stile, mai cerebrale ma anzi spontaneo e verace come la vita vera, è perfetto per raccontare.
Dogman sbatte in faccia a tutti il fatto che quello stesso stile, che fa sì che ad un posto e alle persone che contiene debbano corrispondere per forza certi sentimenti, funziona pure quando si tratta di raccontare la tenerezza e il lato più commovente dell’umanità.

Di tutto Dogman solo una chiusa (non della storia ma proprio dell’ultima scena) un po’ da sogno, in cui sembra che ciò che si desidera sia a portata ma al tempo stesso irraggiungibile, è un filo fuori posto, ma sono dettagli minuscoli di fronte all’imponenza di quest’opera apparentemente piccoletta in cui vero e falso, attori non professionisti e professionisti (tantissimi e bravissimi a partire dall’irriconoscibile Edoardo Pesce, fino a Francesco Acquaroli e Adamo Dionisi, il compratore d’oro minuscolo-borghese, un ruolo inedito per lui eppure subito perfetto) si mescolano per creare una realtà irreale, allo stesso tempo concreta e sospesa, che smarca subito il film dalla cronaca e dal sociale per posizionarlo nel personalissimo. Perché la forza pazzesca di questo film asciutto e semplice, pensato quasi come una storia breve, in cui davvero è impossibile trovare un minuto che sia di troppo, sta in come Garrone trovi il meglio e il peggio non tanto dei personaggi, ma del pubblico. Dogman riesce a guardare così tanto dentro Marcello (che si apre con una spontaneità il cui merito è anche dell’attore non professionista Marcello Fonte) e così in profondità, da raggiungere gli elementi primordiali che accomunano tutti gli uomini e tirarli in superficie, così da metterci di fronte ai nostri istinti più profondi (violenti e teneri), riconoscendoli in quelli dei personaggi.

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