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14.5.18

Cold War (id., 2018)
di Pawel Pawlikowski

CONCORSO
FESTIVAL DI CANNES
 
Alle volte basta una spiccata sensibilità musicale, la capacità di comprendere così profondamente come un certo stile, certe armonie e certe melodie possano sposarsi a determinati luoghi, costumi ed epoche per creare un grande film.
Dentro Cold War c’è una storia abbastanza canonica d’amore passionale e impossibile (né con te né senza di te) tra due amanti che in 15 anni circa si rincorrono in tutta l’Europa degli anni ‘50 e ‘60, passando da una parte e all’altra della cortina di ferro. Ma per quanto ben recitata e trasportata da una notevole sensibilità, è quel che c’è dietro a questa trama a reggere tutto il film.

Si tratta della storia non dei fatti ma del costume e della società, di cosa eravamo e come siamo cambiati, nell’epoca della guerra fredda raccontata tramite i vari settori dell’industria musicale e della sua evoluzione. Idee astratte come libertà, inibizione, tensione, voglia di riscatto e autodistruzione sono rese dagli abiti e dalle melodie. Similmente al classico di Bakshi, American Pop (ma con stile ovviamente molto diverso), Cold War racconta di due talenti che emergono in modi diversi nella musica, attraversando stili e generi in un continuo mutamento che non fa che palesare come la loro tensione in realtà rimanga sempre la stessa.

Wiktor e Zula si incontrano all’inizio alle audizioni per una compagnia di ballo e canto popolare tradizionale polacco.
Apparenza da campo di concentramento ma dinamiche da Saranno Famosi, lei fa subito colpo col suo carattere e la sua voce, lui è in commissione e gestisce la compagnia. Il sodalizio artistico è subito un successo e se ne accorgono anche le alte sfere del partito. In seguito prenderanno strade diverse, poi simili, poi di nuovo diverse con carriere altalenanti che si influenzeranno a vicenda in un continuo amarsi e respingersi, fuggire e poi cercarsi.

La musica francese, quella slava e di nuovo quella polacca, Cold War riesce a non preferirne nessuna e ad ognuna trova il suo senso, il suo contesto e la usa per spiegare un mondo. Questo è vero già in quel primo momento, quando lavorano nella compagnia di balli e canti folkloristici. Le canzoni tradizionali polacche dei campi e dei proletari hanno un’orchestrazione meravigliosa a cui Pawlikowski abbina scenari che ne completano il senso. Zula che nelle campagne polacche canta una melodia contadina che parla d’amore ingenuo mentre prova quell’amore e si lascia trasportare dall’acqua del fiume in cui galleggia, è un’immagine così centrata, armoniosa e in cui musica, e immagini vanno così a braccetto, da illuminare di colpo sul senso di quelle note e sulla loro evidente bellezza. Lì in quel modo e in quel punto sembra anche allo spettatore che davvero tutto abbia senso.

Nella stessa maniera poi la musica da film, la musica jazz da club degli anni ‘50 e quella latina degli anni successivi saranno sempre abbinate al giusto contesto, al giusto mood, ai giusti scenari per raccontare assieme a questo classico amore funestato dalla troppa passione anche la storia dell’evoluzione della musica stessa, come sia sempre stata specchio della società e di come vivevano le persone sia nel mondo libero che in quello comunista.
Dire che la “musica è protagonista” così tanto da dare un senso ad intreccio sentimentale risaputo, sarebbe un’incredibile banalità di fronte ad un film così sofisticato che in certi punti sembra replicare inquadrature da cinema hollywoodiano degli anni ‘30 (specie nelle feste affollate) e in altre (quando i personaggi sono soli e disperati) sembra imitare la fotografia ruvida e immediata di John Cassavetes per avere il meglio dei due mondi uniti in modi che non pensavamo possibili prima di vederlo, eppure è la verità.

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