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26.5.17

A Gentle Creature (Krotkaya, 2017)
di Sergei Loznitsa

CONCORSO
FESTIVAL DI CANNES
Quando dopo quasi un’ora di film qualcuno estrae un telefono cellulare sembra di scorgere un raggio di sole in un giorno di pioggia, un momento di inattesa speranza in un odissea in un’epoca buia. Fino a quel momento niente di A Gentle Creature aveva lasciato intuire che ci trovassimo nel presente. Non la cittadina di provincia della protagonista, non le poste alle quali si reca per spedire un grosso pacco, non le pratiche tramite le quali le fanno capire che non può essere recapitato, nemmeno il bus, la corriera e poi il treno che prende per andare direttamente a consegnare a mano quello scatolone pieno di generi di conforto. Figuriamoci le conversazioni in cui viene coinvolta! E ancora nemmeno nel carcere a cui era destinato, al banco in cui consegnare i pacchi per i prigionieri sembra di intravedere un abito, un oggetto, un elemento di arredo moderni.

Così quando compare il cellulare in mano ad un uomo che, al di fuori delle regole, forse potrà spiegare alla protagonista quello che le forze dell’ordine (con un certo sadismo) non le dicono, ovvero come mai non possono consegnare un bel niente a suo marito in galera, è un barlume di civiltà e una speranza di autonomia e raccolta di informazioni moderna in un mondo che pare fermo al dominio autoritario della carta. Purtroppo è una pallida illusione.

A Gentle Creature è un viaggione pazzesco nel caos bielorusso, nei pregiudizi, nelle conversazioni incredibili e nell’asfissiante pressione di una vita strettissima, inquadrata strettissima, messa in scena strettissima. Un viaggio in cui il caos, il rumore, il sovrapporsi di audio, personaggi, sfondi e primi piani non è mai sintomo di inarrestabile vitalità come nel cinema di Kusturica ma semmai è la voce dei secoli oscurantisti, il sintomo della deriva.
Senza arrivare alle punte di densità soffocanti dei film di Aleksei German, questo film del documentarista con il vizio della finzione Sergei Loznitsa lavora su più piani, sia visivamente (c’è sempre qualcuno nello sfondo che conta come chi è in primo piano) sia per il sonoro (la distrazione tramite rumori è una costante destabilizzante). Tutto è soffocante, afoso e irrespirabile come ci si trovasse nel mezzo della foresta amazzonica e invece siamo nei grandi spazi russi.

E mentre la protagonista, ovvero la creatura gentile e mite del titolo, sembra chiedere a tutti solo “Che devo fare?” per recapitare dei viveri al marito prigioniero, cercando indefessamente una via legale nonostante venga maltrattata da ogni istituzione e le vengano offerte diverse scappatoie illegali, Loznitsa compone dei quadri. Una volta tanto non è un modo di dire, le sue inquadrature funzionano esattamente come i quadri, in esse la luce e la composizione si parlano e intrattengono rapporti complessi, ogni volta diversi e creativi. Si tratta di un piacere incredibile quello che riesce a regalare, consentendo allo spettatore di fermarsi con calma senza essere mai annoiato da immagini che possono essere scrutate a lungo, che appassionano e intrattengono prima ancora di ciò che contengono.
A Gentle Creature infatti impressiona prima di tutto per le sue immagini, tutte costruite per durare, pensate per rimanere e non per passare. Sembra che nulla sia mai fuori posto in questi lunghi piani fissi, pieni di persone e personaggi, in cui lo sfondo davvero conta più del primo piano della creatura gentile, impassibile di fronte ad ogni assurdità che incontra.

Il caos terribile che lascia intuire immobilismo, qui è un inferno reale di post comunismo. Non si contano le volte che Loznitsa inquadra busti di Lenin, vie dedicate al comunismo e che mette in bocca alle comparse un po’ di rimpianto per i bei tempi andati. La parte politica è fortissima, come è lecito attendersi da un film su un prigioniero che viene nascosto e negato da uno stato bieco che sembra non rispondere a nessuna legge né degli uomini, né divina, ma è sempre la forma affascinante di questo film a dire le cose più memorabili.
L’ultima mezz’ora poi sceglie di ricorrere all’onirico (ma benissimo) per tirare le fila del proprio discorso, immaginando un tavolone in cui ogni singolo personaggio visto di sfuggita o in primo piano mangia assieme agli altri e pontifica. Forse l’ultima, durissima, impressionante e terribile scena poteva essere evitata, ma se davvero l’intento è massacrare una creatura gentile con un percorso di violenza statale in crescendo, allora sì, la violenza doveva arrivare al suo culmine senza fermarsi per blandi e pavidi limiti di decenza di fronte agli inevitabili esiti di un simile percorso (per quanto poi espressi metaforicamente).

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