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11.8.16

Suicide Squad (id., 2016)
di David Ayer

Non ci sono dubbi sul fatto che Suicide Squad pensi di essere molto più duro di quel che è. È un film che vanta un cinismo e un atteggiamento politicamente scorretto che in realtà non esistono, anzi è semmai un film più vicino alle convenzionali parabole di un gruppo di brave persone messe dalla parte sbagliata della staccionata. È meglio non aspettarsi una revisione del concetto di villain classico all’insegna di una lettura densa, cioè della complessa stratificazione di cosa sia “bene” e cosa “male” in un mondo in cui i buoni dovrebbero essere i militari o lo stato, ma un ripensamento di più rapido consumo (i politici e i cosìddetti buoni non hanno un “codice”, non conoscono la vita dura, sono solo doppiogiochisti ipocriti). Eppure tutto suona così in linea con il polar francese e quei mondi in cui non importa chi sei ma quanto tu sappia dare valore al rispetto e all’amicizia verso chi dimostra di meritarla, da trovare davanti a sé spianata la strada del miglior cinema criminale. Strada che non riesce sempre a seguire però.
Quest’opposizione che il cinema conosce molto bene è un concetto indispensabile per Suicide Squad, quello da cui David Ayer parte. Perché in fondo il film questo è: un gangster movie con supereroi, uno che punta sul fascino eterno dei criminali con un codice d’onore, i cattivi che proprio per farsi strada in una vita pericolosa necessitano di una schiena più dritta dei buoni.

Avvicinando in questo modo il testo a sé Ayer sembra molto a suo agio con il Joker dandy malavitoso, pensato con grande pregnanza, tutto denti d’argento, bastoni e gioielli, ostentatore come non l’abbiamo mai visto al cinema, vanesio come nemmeno Jack Nicholson ma quasi mai pronto a ridere, molto poco ironico e anzi tormentatissimo da un’inutile intensità fuori luogo che fa apparire Jared Leto nella produzione sbagliata. Eppure nemmeno questo riesce a rovinare la prima parte del film tanto è ben pensata (ben musicata!) e ben montata. Si tratta di un lunghissimo spiegone che dilata a dismisura il punto di forza dei primi film di qualsiasi franchise: il privilegio di introdurre i personaggi principali e stabilire le basi della storia. Ogni villain una scheda, ogni scheda una storia, ogni storia un piccolo corto pieno di idee, musica, ritmo e suggestioni.
Ma anche quando il film arriva nel pieno della seconda parte, nel pieno cioè della missione suicida in cui questi criminali matti e (alcuni) con superpoteri vengono coinvolti loro malgrado ma nella quale imparano a conoscersi e rispettare anche il potere che li sfrutta, Suicide Squad dimostra che non gli manca la capacità di immaginare e stupire (un colpo di scena finale sulla natura di uno personaggi una volta tanto è davvero inatteso e soddisfacente). Esattamente ciò che spesso manca a cinefumetti molto più solidi, ben prodotti e tecnicamente inattaccabili.

Invece questo film attaccabilissimo, pieno di difetti, scene rimontate e quindi non perfettamente ritmate o momenti che sembrano troppo sbrigativi, sa regalare le invenzioni del cinema vero. Una trasformazione da normale ragazza a dea oscura fatta con una mano nera che emerge da dietro il palmo di una bianca, la stringe e voltandola volta tutto il corpo per cambia persona, in un’immagine sola spiega la doppiezza e il sopravvento di una personalità sull’altra, che poi sono le caratteristiche chiave di quel personaggio. Ancora i flash di Harley Quinn (personaggio classico e convenzionale ma ben gestito) di una vita passata e poi di una vita futura possibile si muovono con grazia invidiabile sul difficile crinale tra ridicolo, grottesco e sentimentale autentico. Già il personaggio è tra i migliori possibili: una persona che rappresenta il massimo della sanità mentale portata a diventare il massimo della follia, anche più di Joker, solo per amore, allegoria estrema di tutte le donne plagiate da un uomo fino a perdere la propria personalità e aderire al suo stile di vita. In più Margot Robbie dimostra di essere stata la scelta di casting giusta compiendo un salto in avanti e traducendo la follia del suo personaggio attraverso la pericolosità di una sessualità mai contenuta, comunicata con bocche e sguardi che nessun PG-13 può arrestare.

Infine, questa storia che sembra accumulare problemi e incongruenze pronti ad esplodere in un finale abbastanza deludente, come accade spesso quando si presenta una minaccia potentissima solo a parole ma spesso ridicola visivamente, e in più si è costretti a farla fuori in maniere anche troppo terra terra, è continuamente rischiarata dal carisma di Viola Davis. Lei, la meno potente in un genere in cui la potenza è tutto, è l’unico reale villain credibile (di certo più di incantatrici e divinità ballerine varie), quello irredimibile che spara ai suoi simili senza scrupoli e rappresenta lo stato, la mente geniale capace di tenere testa ad un esercito di metaumani e pazzi omicidi con le sole armi di sguardo e atteggiamento, il vero villain che definisce un intero film, il vero colpo segreto del cinema, il valore aggiunto sconosciuto alla carta stampata.

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